mi sento uno schifo

Marek Ruzyk (pittore polacco contemporaneo)

“Mi sento uno schifo!”: Un viaggio all’interno di una parola “abusata” e mal interpretata: in questo articolo si ribalta il significato della sensazione di nauseante malessere che tante persone oneste percepiscono, accollandosi colpe ingiuste, evocate da egoismo e da ignoranti pregiudizi.

Vi sono dei comportamenti perversi e maleducati di chi veramente potrebbe meritarsi questo appellativo, eppure spesso è la “vittima” a sentirsi uno “schifo”. La vittima di un abuso si sente uno “schifo” [ma si senta tale chi l’ha vessata!]. Una persona che dà tutta se stessa per un progetto virtuoso, quando ha esaurite le risorse, si sente “uno schifo”, invece dovrebbe essere orgogliosa e tutelata per il suo immenso sacrificio.

Allora entriamo in sintonia con questa parola.

Schifo: etimologicamente significa io schivo, cioè evito, la parola deriva dalla barca che evita le onde per non farvisi travolgere, perché è un elemento estraneo inserito in un ambiente ostile.

La barca perciò sfugge, si distanzia, evita ciò che non è nella sua natura. Essa è dunque strumento atto a questo scopo, è di forma concava, come una coppa, da cui “scavo” e quindi “schivo”.

La sua concavità, atta a contenere un contenuto da proteggere, da tutelare, da sostenere, crea di conseguenza una convessità rivolta verso l’acqua, premendola come una ciste ed essendone respinta con una forza proporzionale alla sua spinta.

Si tratta di una forma a coppa, a ciotola, come il simbolo del Kh egizio che “contiene” l’essenza vitale, il “KA”.

Da cui si ha lo s-CHI- e poi la F (o la V) cioè suoni sottolabiali, suoni che non sono come un bacio che tocca (p -b) ma come un alito, un soffio: siamo a distanza, con il suono fffff che fa l’onda quando è sfiorata dallo scafo.

E cosa vuole evitare il vascello che è un costrutto umano, quindi frutto di razionalità? Vuole evitare l’oceano, l’immensità profonda dell’inconscio sul quale naviga con passione, ma teme di essere inesorabilmente, eternamente assorbito; perciò schiva, ondeggiando con le onde, e ciò, questo continuo riadattare la sua centratura, porta a nausea. Una lotta tra razionale e subconscio, tra vita terrena e l’immersione nell’eterno marasma.

Vivere in una situazione “schifosa” significa essere disgustati dal continuo sciabordio interiore. Eppure, senza questa coppa che contiene nettare divino in appassionata navigazione, l’oceano non saprebbe di esistere, perché è il conscio, con la sua consapevolezza, permette di ricordare il passato, aspirare al futuro, e quindi dà vita alla persona, che altrimenti si accenderebbe e spegnerebbe ad ogni istante come se fosse l’unico della sua esistenza.

Perciò il mare si sente spinto, invaso dalla barca, e cerca di espellerne la pressione, ma dall’altro cerca di inglobarla nei suoi flutti, per farla sua e “digerirla”, lasciandola sedimentare nelle profondità del fondale. Allo stesso modo lo scopo della barca è quello di navigare, perciò è affine e conforme all’elemento che la ospita, anch’essa si sente attratta verso l’abisso e cerca di sfuggirvi, solcando la superficie con destrezza.

Il vascello che sembra immergersi ad ogni flutto, ma poi sfugge inesorabile, come la cerva inseguita nella foresta dal maschio in amore che bramisce per possederla.

Così dall’esterno chi vede la scena vede lo “schivare” lo sfuggire, l’evitare, ma in realtà è un gioco, nel quale vince sempre il più saggio, con la sua profondità oscura da cui tutto si origina.

Portato a termine il suo compito, l’ospite della barca è deposto sulla riva, il compito del naviglio si è esaurito, estraendo dai flutti e ponendo ben saldo, aderente, su uno scoglio ventoso, la coscienza, in modo che un raggio di sole la accarezzi e la illumini nella fredda brezza salata.

Ed ecco che, terminato il suo compito, osservata dal ruvido scoglio, la barca alla fine s’affonda nell’immenso blu cobalto opalescente e “…..il naufragar m’è dolce in questo mare”.

Poesia di Sergio Sapetti, tratta da “Antologia”

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