Il colorato profumo del tempo

Il tempo ha un suo profumo e un suo colore, ha una sensazione consistente che si disperde nella polvere dei ricordi d’infanzia.

Oggi è praticamente irripetibile poter assaporare ciò che vissi oltre mezzo secolo fa. I colori, gli odori, i suoni erano differenti. Molte strade del paese erano asfaltate, ma l’asfalto era diverso,  più simile a terra e cemento, grigio poco elastico. I suoni delle automobili e dei trattori erano rari, il rumore dei motori era bicilindrico, lento. Nelle strade passavano le mucche al rientro dai campi, trainando i carri, il loro sterco era subito raccolto, perché serviva per concime, non andava sprecato.

L’aria era di una freschezza fragrante, in primavera aveva il profumo dei fiori, in estate si sentiva odore di paglia. Non vi era un sottofondo costante di brusio dato dai motori degli elettrodomestici (oggi, in caso di black out, ci si può accorgere che le orecchie si zittiscono di colpo, perché si sono spenti i rumori di fondo ai quali siamo assuefatti).

Il latte aveva un suo profumo, veniva munto da un allevatore che si sedeva su un seggiolino dotato di una sola gamba e agganciato con cinghie alle sue cosce. Il mungitore si spostava da una vacca all’altra, in una stalla asciutta, piena di paglia, riempiendo il secchio metallico. Il latte era poi travasato nel barattolo di alluminio che aveva una particolare leggerezza e calore al tatto, era grigio lucente, con un manico di rame, giallo, che faceva un rumore tintinnante (ting, ting) caratteristico ad ogni passo. Anche il coperchio aveva un suono particolare, come fosse una chiusura ermetica (un “tump” ottuso).

I robustissimi giocattoli di plastica e di metallo erano profumati, ogni giocattolo aveva un suo profumo, e così avevano il proprio profumo gli oggetti di uso quotidiano: profumo di mola di arrotino, profumo di cucina, profumo di latte ecc.

Ogni negozio aveva la propria luce e il proprio profumo: la vineria era un luogo umido, un po’ oscuro, con profumo di vino; la salumeria era un luogo più secco, sempre un po’ scuro, con profumo di salumi, di insalata russa, di sardine ecc.; la macelleria era un luogo simile alla salumeria, tutti negozi piccolissimi, una stanza stretta e lunga, il profumo della carne dimostrava la sua freschezza. La panetteria aveva un profumo “alto” che volava espandendosi per parecchi quartieri perché il forno lo spargeva fin dalla notte. Nella merceria vi erano suoni ovattati, i profumi erano di stoffe pulite e sistemate in pile altissime e colorate con colori intensi ma non metallici come gli attuali, erano colori pastello. Dal ferramenta vi era il profumo del ferro e della ruggine, i suoni erano stridenti. Ogni negozio aveva le sue caratteristiche sia che fosse al chiuso, sia che, come la carbonaia, fosse in un cortile aperto, in cui si respirava una leggera polvere nera di carbone, secco e tagliente.

Le mie mani potevano toccare gli oggetti e sentirne la consistenza, il calore, la forma, ogni negozio aveva oggetti con una loro identità peculiare e il profumo di questi oggetti o di questi cibi, restava sulle mani.

Le persone avevano un altro tono di voce e si muovevano in modo differente da oggi. Camminavano, gesticolavano e guardavano in maniera differente. Per capirlo, si provi a vedere un film anni ’50 oppure si guardino delle partite di calcio o delle discese di sci di quegli anni e si potrà capire come ci si atteggiasse in maniera diversa, più rigida (cioè meno atletica), ma anche più marziale: torace in fuori, sguardo fiero, diritti e volonterosi.

La tonalità di voce era potente, saliva dal profondo dei visceri, la gente cantava e fischiettava spontaneamente per strada e mentre lavorava, senza vergogna. Ci si vestiva come era utile vestirsi, se faceva freddo ci si copriva, se faceva caldo ci si scopriva, non era necessario stare in mezze maniche tutto l’anno e poi accendere a palla il riscaldamento per non avere freddo. I vecchi, soprattutto le donne, che  sempre vestite di nero e con il foulard in testa, avevano mani e viso simili a castagne bollite, erano pelli raggrinzite che dimostravano la tenacia della volontà secolare.

Tutti parlavano con tutti, senza troppi problemi, con voce forte, sguardo negli occhi. Tutti sapevano quali erano i limiti, qualcuno li superava, ma gli altri “gliene staccavano quattro” e lo facevano tacere. Se un bambino o ragazzo si comportava male, tutti avevano diritto di sgridarlo e riferire il fatto ai genitori che, dopo avere ringraziato per l’intervento, rincaravano la dose punitiva.

I genitori sculacciavano, alcune volte prendevano a cinghiate o tiravano le orecchie da farle diventare rosse, i figli avrebbero continuato a combinare marachelle, ma la loro voce e personalità ne uscivano educate e rafforzate.

Se un bambino si faceva male, sapeva curarsi da sé, in modo da evitare ulteriori punizioni. Si imparava a non lamentarsi, a trovare sicurezza ma non conforto, presenza e controllo, ma non accettazione passiva e incondizionata, libertà ma con regole ferree.

Già da bambino sapevo dove erano i confini delle proprietà, dove potevo andare e dove no, anche se non c’erano muri, cancelli, catene e cordini a segnalarlo, perché i confini sono nella mente e la proprietà altrui va rispettata, così come gli altri devono rispettare la nostra. Nei campi e nei cortili non ognuno ha i suoi spazi, la tua presenza nel terreno altrui era tollerata solo se dimostravi di saperti comportare bene e di rispettare le regole. Così per gli oggetti, li si poteva lasciare incustoditi, perché nessuno li avrebbe usati al posto del legittimo proprietario. Nessuno avrebbe danneggiato qualcosa di un altro per noia o per dispetto. Se vi era una questione, si poteva facilmente venire alle mani, ma allora ci si scontrava nel vero senso della parola, picchiandosi e rotolando nella ghiaia, e poi ognuno a casa sua a leccarsi le ferite, cercando di togliersi di dosso l’odore della persona odiata.

L’acqua spesso era ancora raccolta dal pozzo, era gelida ed aveva un leggero residuo di argilla. La si beveva da un mestolo di rame, nero e verde scuro per l’ossidazione. Il cibo era cotto sulla stufa a legna, accesa anche d’estate, il gusto di quel cibo era particolare, aromatico, pieno di sapore. La luce elettrica non era a 220 volt ma a 125, perciò di sera si cenava in un ambiente in penombra, tra i profumi dei cibi.

I cani si chiamavano Bobi e Fido, altri nomi non servivano, erano fedeli ai comandi, abbaiavano se serviva, se no stavano zitti. I gatti vivevano di avanzi, non di scatolette puzzolenti, non erano pingui, lavoravano come cacciatori di bisce e topi. Sia i cani sia i gatti avevano l’aspetto dato loro dalla natura e dagli infiniti incroci, nessuno era di razza, tutti erano rozzi ma solidi e operativi.

Gli animali da cortile erano allevati perché erano cibo, li si amava, li si accudiva, li si curava, e poi li si uccideva per nutrirsene, e si cresceva sani e forti, sapendo qual è l’ordine delle cose nel mondo. Ogni loro parte veniva utilizzata: per cibo, per vestiario, per gli altri animali o per concime.

Vi erano i pedofili, un giorno uno al limitare del bosco, mi chiese se volessi andare con lui (io avrò avuto due o tre anni), notai lo sguardo che gli rivolse mio nonno (lo compresi appieno anni dopo), gli disse poche parole elusive e mi portò via. In ogni caso al fianco della cintura, quando si andava nei boschi, l’adulto agganciava sempre una roncola con lama da 25-30 centimetri, perciò bastava stargli vicino per essere sicuro che nessuno ti avrebbe importunato. Esistevano i ladri, soprattutto zingari e zingare, io li ho visti andare ancora in giro con il carretto trainato dal cavallo, anziché la roulotte. La zingara tentava di invitarmi ad aprire il chiavistello, muovendo il suo dito uncinato e cercando di sorridermi. Io la osservavo a qualche metro di distanza, vicino alla porta di casa, cercando di capire se riusciva ad aprire il chiavistello da sola. Ma mio nonno l’aveva messo nel modo giusto, lei non riusciva ad arrivarci e io stavo lì fermo ad osservarla, perciò lei disse delle parole incomprensibili, agitò le mani in modo minaccioso e se ne andò, accompagnata dal latrare dei cani di tutto il paese (difficile passare inosservati per chi aveva odore minaccioso).

C’erano i miserabili. Una famiglia numerosissima. Il figlio più grande era ricoperto da capo a piedi di unto nero, era magrissimo, mangiava poco o nulla ma lavorava. Un altro figlio andava sempre in giro con lo sguardo provocatore e minaccioso, avevo imparato che dovevo guardarlo allo stesso modo. Altro fratello era della mia età, ogni tanto giocavamo a pallone insieme. Poi c’erano tante sorelle, innumerevoli, grandi e piccole. Una, la più grande, quando usciva dal droghiere apriva di nascosto il prosciutto e ne rubava una minuscola fetta agli altri famigliari. La madre non aveva alcun soldo perciò quando i commercianti non le facevano più credito si fasciava, si metteva a zoppicare e diceva che era finita sotto il treno o sotto il pullman. Il padre non c’era mai, lo vidi una sola volta. aveva un Fiat Millecento nero con una carrozzeria lucidissima ma usurata da viaggi infiniti, carico di ogni sorta di ciarpame colorato, lui sembrava uscito da un bazar Turco da com’era vestito. Agitava le mani, parlava a voce alta e tutta la famiglia gli saltava intorno per accalappiarsi dei doni.

C’erano automobili eccezionali come quella della vecchissima maestra elementare: era una Fiat 600 bianca e blu con colori lucidissimi, che in genere viaggiava a 20 chilometri orari. I furgoni erano le 500 giardinetta (blu opaco), microscopiche, eppure dentro ci stava un mucchio di roba. Il postino aveva una motocicletta rossa con la quale arrivava sempre con un rumore fortissimo pur andando piano. Anche le automobili avevano un loro profumo particolare, le più ben tenute e i camion avevano odore di gasolio tirato a lucido, quelle commerciali avevano l’odore dei prodotti. Quelle di famiglia sapevano di plastica cotta al sole e benzina.

Il televisore si poteva vedere al bar, captava (male) un solo canale, raramente due, sempre e solo in bianco e nero. L’uso della radio era un’impresa scientifica: la si faceva scaldare, poi la si sintonizzava girando e rigirando manopole, finalmente si sentiva la voce del telecronista trasmettere la partita di calcio come se provenisse da un altro mondo. Però l’immaginazione si manteneva bella vivace.

D’estate si sentiva il silenzio, su cui si componeva la musica della voce delle rondini, del volo delle mosche, del canto delle cicale. D’inverno vi era un silenzio di ghiaccio ma il profumo dell’aria era pregno dell’odore della legna che ardeva nelle stufe e nei camini. Ogni casa aveva odore di cucina, di legna bruciata, di sigarette, sigari o pipe fumati una sola o poche volte al giorno. Tutto era poco, era lento, era colorato, era voce potente sul sottofondo di silenzio.

Ora, nel silenzio e nel buio, dal profondo della polvere dei ricordi, quel mondo manda dei riflessi che creano brevi illusioni come se appartenessero ad un’altra persona e ad un’altra vita.

Lo stesso racconto, scaricabile come ebook in pdf

Il colorato profumo del tempo – Sergio Sapetti

 

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